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GIANCARLO PONTIGGIA
UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO
© 2009 Midesa s.r.l.
1. Il Cantico spirituale di Giovanni della Croce
Verso la fine del XVI secolo, dopo la rivoluzione luterana e il Concilio di Trento, il mondo cristiano sembra allontanarsi per sempre dal suo sogno umanistico. Forse soltanto le immagini sacre e le opere mistiche sono davvero capaci di rendere con qualche approssimazione l’anima tragica e sanguinante dei nuovi tempi. All’armonia serena e umana di Raffaello, a quella enigmatica e dolce di Giorgione, si sostituiscono tele e affreschi dove i volti pallidi e consunti dei santi, rapiti in visioni estatiche, avvolti da inquietanti aureole, si perdono in cieli trapassati da nuvole fosche e vertiginose. Alcuni di essi narrano le proprie esperienze in libri corruschi che precedono il fasto perso e verminante dell’imminente barocco: Santa Teresa d’Avila scrive la sua straordinaria Vida; Padre Filippo della Santa Trinità la sua Summa theologica mystica; il gesuita Álvarez de Paz il De gradibus contemplationis; San Francesco di Sales un Traité de l’amour de Dieu; José López Ezquerra una sontuosa Lucerna mystica. Anime che si consumano nel desiderio di unirsi a Dio, nell’implorazione di un martirio. La Vida di Santa Teresa si apre con la descrizione delle fantasticherie di cui si era nutrita la sua infanzia:
Vedendo i supplizi che i santi soffrivano per Dio, mi pareva che acquistassero molto a buon mercato la grazia di andarlo a godere, e desideravo intensamente di morire anch’io così, non per l’amore che mi paresse di sentire per Lui, ma per godere al più presto quella gran felicità celeste di cui mi parlavano i libri. Ed era con questo mio fratello che mi consigliavo per cercare insieme in che modo si potesse raggiungere quella meta. Si progettava di andarcene in terra di Mori, accattando per amor di Dio, affinché laggiù ci tagliassero la testa.[1]
Si sogna il martirio, si vivono estasi di sofferenza: una santa carmelitana, Maddalena de’ Pazzi, fa colare la cera bollente delle candele sulla sua pelle, che si macchia del rubino del sangue. Immenso, stupefacente catino cromatico per i pittori contemporanei, che infiammano scene di pentimenti collettivi con effusioni di pustole, cancrene, fulgori celesti. Solo la peste, nei suoi rinnovati transiti fra Oriente e Occidente, pareggia per intensità gli ardori del desiderio mistico.
Juan de la Cruz è allievo di Santa Teresa. Più giovane di lei di quasi trent’anni, era nato nel 1542 in un villaggio della Castiglia, figlio di due tessitori. Alla morte del padre, la famiglia era vissuta in uno stato di costante miseria. Il piccolo Giovanni, accolto in un orfanotrofio, aveva imparato rapidamente a leggere e scrivere. Raccoglieva elemosine, serviva da chierichetto. Qualche anno più tardi fu assegnato come infermiere all’Ospedale della Concezione, nel reparto delle malattie veneree e contagiose. Fuori chiedeva l’elemosina per i pazienti, tutti poverissimi, miserabili relitti umani. Grazie all’aiuto dei superiori, poté iniziare gli studi umanistici al collegio dei Gesuiti: leggeva i grandi classici, componeva esercitazioni poetiche in lingua latina. Fu infine all’Università di Salamanca, allora prodigiosa «Atene di Castiglia», con centinaia di professori, migliaia di studenti, al culmine del suo splendore: vi studiò astronomia, musica, grammatica, filosofia ed etica. Nel 1567 fu ordinato sacerdote; nello stesso anno conobbe Teresa, che aveva già cinquantadue anni. Entrambi cercano un nuovo modello di vita cristiana, fondato su un’esigenza di mortificazione e di penitenza, di raccoglimento, di preghiera, di contemplazione. Giovanni divenne confessore nel convento delle Carmelitane Scalze fondato qualche anno prima da Teresa. La reazione dei carmelitani osservanti o «calzati» contro il nuovo ordine condusse all’arresto di Giovanni. Era il 2 dicembre 1576. Imprigionato nel carcere conventuale di Toledo, prima in una cella comune, poi in una specie di buio cunicolo, segregato dalla vita, dalla luce, dagli uomini, prossimo ormai alla morte a causa delle orribili condizioni di vita a cui era costretto, nell’estate dell’anno successivo riuscì infine avventurosamente a fuggire. Riparò in Andalusia, dove visse dieci anni. Nuovi conflitti di carattere politico-religioso lo costrinsero all’isolamento tra le pietre della Sierra Morena. Morì per un’infezione ulcerosa nel dicembre 1591. Non aveva ancora cinquant’anni.
Il Cantico spirituale, nato nel periodo più tormentato della vita di Giovanni, comprende quaranta strofe intitolate Canzoni tra l’anima e lo sposo più un lungo, articolato commento in prosa al testo poetico. Le prime trenta stanze delle Canzoni nascono proprio nella buia cella di Toledo, tra gelo, fame, tormenti, umiliazioni; negli anni successivi se ne aggiungeranno man mano altre fino a raggiungere, nel 1584, il numero di trentanove; nello stesso anno fu completato anche il commento. Nuovamente rielaborato due anni dopo con l’aggiunta di una nuova strofa, la XII, alle Canzoni, il testo fu pubblicato postumo, per la prima volta in una traduzione francese del 1622, solo più tardi (1627) in lingua originale.
La vera sofferenza non è quella dei corpi, è quella dell’amore. L’amore mistico è come un fuoco che dilaga nelle ossa e nelle viscere; smisurato, divorante. Nelle quaranta strofe delle Canzoni l’anima-sposa dialoga con il suo Amato. Arde dal desiderio di possederlo, di abbracciarlo. Lo invoca: «Concediti ora intero e per davvero» (VI, 2).[2] Lo ammonisce: «guarda che la tristezza/ d’amore non si cura/ se non con la presenza e la figura» (XI, 3-5). Il linguaggio è quello fiammante e sensuale, violento e pulsionale della tradizione mistica: «L’amor non me perdona,/ tutto me va spogliando,/ forte me va legando,/ non cessa d’enflammare»,[3] aveva scritto Iacopone. In Giovanni le straripanti metafore erotiche del Cantico dei Cantici si fondono con quelle della poesia d’amore profana, con la sua tradizionale tavola di fiamme, frecce, piaghe, languori, cuori rubati. Sensualità madrigalesche si sposano a immagini bibliche; la tradizione classicistica a quella mistica: e sono ninfe (XVIII), canti di sirene (XXI), il mito di Filomela (XXXIX). Anche il paesaggio è quello della poesia pastorale: sorgenti, boschetti, ninfe, pastori, ai quali subito la sposa abbandonata si rivolge fin dalla seconda stanza della canzone:
Pastori, voi che andrete
lassù fino agli addiacci dell’altura,
se colui che io ho scelto
vedeste per ventura,
ditegli che languisco e peno e muoio.
Non mancano echi della grande, fiorente poesia spagnola del Cinquecento, da Garcilaso a frate Luis de León, che aveva tradotto in castigliano il Cantico dei Cantici, ma anche di Virgilio, Orazio, Tibullo; e risonanze di semplici canti popolari, con quei fulgori orientali di rose e di giardini, quelle accensioni festose di melograni che attraversano l’intera poesia spagnola giungendo fino ai nostri giorni.
L’anima-sposa, abbandonata dall’Amato, invoca boschi e selve, segue le sue tracce, non si accontenta delle pallide relazioni di messaggeri (VI), né dei poveri balbettii di testimoni che hanno visto il suo Sposo (VII): vuole fulgidi giardini, parole fiammanti, perdersi con Lui nei boschi dell’amore mistico, penetrare fin nelle «elevate/ caverne della rupe», simbolo di Cristo inaccessibile e profondo (XXXVII). La notte quieta (XV), la notte serena (XXXIX) sono le scale segrete di questa ricerca. La notte di Giovanni è il cammino che l’anima compie per raggiungere l’unione con Dio: e il santo, nei racconti dei contemporanei, appare spesso affacciato alla finestra di una cella, mentre contempla il cielo, le notti lucenti di Castiglia o di Andalusia. Che cosa vede? Ciò che è segreto, senza «rumore di parole», una corrente invisibile che nondimeno preme sul corpo, lo modella. E noi ci chiediamo quanti pensieri sono stati necessari agli uomini, quante immagini per giungere a questa sintesi, alle parole nude e razzanti di queste sue Canzoni: i numeri di Pitagora, le stelle di Platone, il nome impronunciabile dei Giudei, le dispute ombrose lungo i sisti delle case romane, antiche favole come quella di Amore e Psiche, da Apuleio così delicatamente narrata all’interno delle sue Metamorfosi; per giungere infine a queste stanze, dove le ombre delle parole si intricano in ramaglie e fronde e forme spesso oscure, invalicabili allo stesso autore.
Mentre compone i propri versi, Giovanni è infatti subito preso dal desiderio di commentarli uno per uno, di decifrarli. Si sente come all’oscuro; e questa oscurità lo costringe di nuovo a rimeditare ogni parola. Non è un commento aridamente interpretativo, ma interrogativo, che accerchia ogni verso alla ricerca dei suoi enigmi sepolti, dei suoi «misteri», come egli stesso dice, espressi «in strane immagini e somiglianze». Così il Cantico, nella sua forma mista di verso e di prosa, appare sempre più simile a uno strenuo esercizio dello spirito. D’altronde, come lo stesso Giovanni ebbe a dire in una lettera scritta dal carcere a madre Catalina de Jesús, «dopo che mi ha ingoiato quella balena e vomitato in questo strano posto, non ho meritato mai più di vedere la Madre, né le sante persone di quelle parti. Dio ha fatto bene, poiché, alla fine, l’abbandono è lima che corregge e purifica, ed è di grande luce patire le tenebre».[4]
2. Il Re Torrismondo di Torquato Tasso
Appena liberato dalla lunga segregazione nell’ospedale di S. Anna, dov’era stato rinchiuso sette anni prima, nell’agosto del 1586 (se non già nel semestre precedente) Torquato Tasso riprende la composizione di una tragedia iniziata ai tempi felici dell’Aminta (1573), ma lasciata interrotta alla seconda scena del secondo atto e pubblicata come Tragedia non finita in un volume di rime del 1582. Nel giro di pochi mesi, tra agosto e dicembre, a Mantova, dove è ospite del duca Vincenzo Gonzaga, l’opera è conclusa e consegnata alle stampe. Uscirà nell’estate del 1587 con il titolo di Re Torrismondo, ma sarà rappresentata per la prima volta solo nel 1618, a Vicenza, diversi anni dopo la morte del suo autore.
La trama del Torrismondo, fosca e fatale, attinge al patrimonio della tragedia greca, e in particolare all’Edipo Re di Sofocle, che proprio nel 1585 aveva inaugurato il Teatro Olimpico di Vicenza con strepitosa magnificenza di scenografie, di musiche e di costumi. Violando «d’onore/ e d’amicizia le severe leggi» (vv. 569-570),[5] il re dei Goti Torrismondo, durante una notte di tempestosa burrasca, giace con Alvida, promessa sposa all’amico Germondo. E ora «traditor fatto di fedele amico,/ anzi nemico divenuto amando,/ da indi in qua sono agitato, ahi lasso,/ da mille miei pensieri, anzi da mille/ vermi di penitenza io son trafitto,/ non sol roder mi sento il core e l’alma,/ né mai da’ miei furori o pace o tregua/ ritrovar posso» (vv. 572-579). Ma il tema del conflitto fra amore e amicizia è presto oscurato da una serie di cupe agnizioni, che rivelano come Alvida sia in realtà sorella di Torrismondo. In un finale carico di crescente tensione, i due fratelli-amanti si uccidono, mentre il coro finale canta la vanità della gloria terrena e la transitorietà della vita umana con versi umanissimi e malinconici di eco petrarchista: «Ahi lacrime, ahi dolore:/ passa la vita, e si dilegua, e fugge,/ come giel che si strugge» (vv. 1308-1310). Sullo sfondo, un paesaggio aspro, sterminato, dominato da silenzi profondi, tra ghiacci, nevi e paurose voragini, «bianchi e spumanti/ mille gran monti di volubile onda» (vv. 519-520), «tenebrosi abissi» (v. 524), dove isole sperdute sono circondate da un Oceano mugghiante e spettrale, un mondo di freddi orrori e di selvagge solitudini ispirate al pathos truce della tragedia latina (da Pacuvio a Seneca), da cui il Tasso sa anche sprigionare accenti sublimi e protoromantici. A questa natura ghiacciata e orrida, su cui pesa un fato oscuro e crudele, invano i protagonisti tentano di opporsi. Né le lucide argomentazioni di Torrismondo, né le lacrime patetiche di Alvida possono scalfire un disegno invincibile o rimuovere la «cagione antica occulta» (v. 228), ovvero l’incesto, che minacciosamente preme sul loro destino: le stelle, invocate, restituiscono la loro luce livida in visioni allucinate e fosche, in «forme d’orrore e di spavento» (v. 35), travolgendo ogni pensiero e ogni resistenza.
La tragedia cinquecentesca prevedeva, sulla scia della Poetica di Aristotele, una catarsi dalle passioni e dagli orrori della coscienza. Ma nel Torrismondo ogni luce pare lontana, i protagonisti sono in balìa della fortuna, Dio è assente, onde di lamenti si sollevano dai versi per perdersi nella pronuncia enfatica e dolorosa del poeta, che si abbandona, attraverso la voce del coro finale, a un sentimento di infelicità cosmica: «Che più si spera o che s’attende omai?/ Dopo trionfo e palma,/ sol qui restano a l’alma/ lutto, e lamenti, e lagrimosi lai./ Che più giova amicizia, o giova amore?/ Ahi lagrime, ahi dolore» (vv. 3323-3328). Pesano sul Tasso gli anni dolorosi e infelici di S. Anna, e il tormento della Gerusalemme, che proprio all’epoca si apprestava a mutarsi da Liberata in Conquistata; e pesano le antiche ansie di gloria mai appagata, che già avevano spinto il poeta a raffigurarsi, nel proemio del suo poema, come «peregrino errante, e fra gli scogli/ e fra l’onde agitato e quasi absorto». Anche Torrismondo non è altro, in fondo, che una proiezione autobiografica del suo autore, teso alla gloria e alla fama, esule, solo, diverso, come il protagonista della tragedia si dipinge nella scena d’apparizione del primo atto: «Fui vago di mercar fama ed onore;/ onde lasciai la patria e ’l nobil padre,/ e gli eccelsi palagi, e vidi errando/ vari estrani costumi e genti strane;/ e sconosciuto e solo io fui sovente» (vv. 334-338).
Lontano dall’edonismo appagante dell’Aminta come dallo splendore metaforico della prima Gerusalemme, potente e strenuo nella sua impossibile retorica, Re Torrismondo si esilia nei versi spezzati e ansimanti di Alvida, anticipo del linguaggio tragico di Alfieri, o in quelli tombali e raggelati di Torrismondo, sospeso (come Tancredi della Gerusalemme, d’altronde) perfino in punto di morte (vv. 3045-3050) in una sorta di attonita e angosciosa perplessità. I temi affrontati sono di nuovo quelli più ardui e veri del Tasso, dal sentimento dell’umana infelicità al dolore enigmatico, dalla fragilità del cuore umano all’ingenuo e intenso desiderio di idillio e di amore, in versi carichi di una pronuncia disperata ed evocativa che già sembrano anticipare il lirismo cosmico e appassionato di Leopardi.
Che cosa accomuna questo Tasso alle pagine accecanti di san Juan de la Cruz? Molto e poco, a seconda di come decidiamo di leggere i loro versi, insieme così feriti e lucenti. In entrambi, certo, opera l’idea primordiale di un carcere umano dal quale non v’è anima, in apparenza, che possa fuggire, se non nel sogno di un’arcadia luminosa o dell’incommensurabile Amato. Sposi del buio, entrambi, di un destino che avrebbero forse, potendo, mutato, e in cui riconoscono tuttavia l’impronta di una vertiginosa grandezza: basteranno due secoli perché Leopardi pianga sul sepolcro di Tasso come Cesare dinanzi alla statua iberica di Alessandro; e perché i martirii controriformistici si traducano in belletti estetizzanti per cuori alla Des Esseintes. Da allora, chi potrebbe rileggere queste fiammanti, piagate pagine tardo-cinquecentesche senza provare un sentimento di orrore, di pietà? Benché così profondamente letterarie, così riparate dagli aspri, solitari lirismi della modernità, sembrano già sull’orlo di essere inghiottite, una volta per tutte, dal demone oscuro di un’esistenza esiliata, di una visione intimamente malinconica, “soggettiva” del divino, della parola, del mondo (quella visione che August Wilhelm von Schlegel avrebbe così lucidamente espressa nella prima lezione del suo Corso di letteratura drammatica). Nel saio sporco di Lutero, nel suo agostinismo nordico (la Germania fangosa, invivibile di Tacito),[6] come in un buco nero della storia del mondo, si erano davvero spente, per sempre, le fiamme del grande Rinascimento.
* Questo articolo fu pubblicato nel 2006 in Selve letterarie (Moretti & Vitali Editori, Bergamo). La versione on line che qui si presenta ne è una correzione (© 2009 Midesa s.r.l.).
[1] Santa Teresa d’Avila, Vita, a cura di I. Alighiero Chiusano, Rizzoli, Milano 1962, p. 12.
[2] Giovanni della Croce, Cantico spirituale, a cura di N. von Prellwitz, Rizzoli, Milano 1991.
[3] Iacopone da Todi, Laude (86, 357-360), a cura di F. Mancini, Laterza, Roma-Bari 1980.
[4] Lettera del 6 luglio 1581, in Giovanni della Croce, Cantico spirituale, cit., p. 37.
[5] Le citazioni sono tratte da: Torquato Tasso, Il Re Torrismondo, a cura di V. Martignone, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore, Parma 1993.
[6] Cfr. Germania 2, 1.